By now, the border between art and mass media is more and more fleeting, not only considering the languages used, but above all, in relation to the kind of vision. For a long time now, in facts, the same glance and the same psychological mechanisms seem to be used to structure and convey messages. A subtle game of closeness and distance, between empathy and event, presentation and representation. Let's take, for example, Nam Goldin's photo diaries, with their outsiders' everyday life put in scene. Glimpses, foregrounds, close up of real persons described in their most intimate moments, when the emotion permeates the atmosphere. The American artist pretends to be a "real" witness. Her sincerity consists of her emotional involvement and in her time spent with the people portrayed. Their life is her life, the camera is nothing else but a continuation of her eyes. "I'll be your mirror", she claims. The objective goes inside the houses, takes pictures of intimacy and real life, like in reality shows and truth format. Then, we have various artists' raids between private and public, between testimony, interception and stalking. Vanessa Beecroft changes her first peep-hole intrusions into the setting of a statuesque vulnerability really cool. , Lüthi also declares. With the Swiss artist, the attitude changes: confessional, theatrical, narcissistic, diva-like playing to the crowd, ("You are not the only who is lonely", "Lüthi also cries for you"... ). He is the idol of a community bound up with opinions and consumer goods. In a society of images and icons, the star is someone who is able to attract people's attention around an event in which they can take part. An ephemeral link building identity: the individual loneliness and pain find a legitimating correspondence in the star and in the ritual of public confession, without asking for real social intervention.
"I'll be your mirror"
"I'll be your mirror"
With the Australian Ron Mueck, instead, we are in front of a super sight, which takes possession of the prerogatives of touch to increase the perception we have of the human. Mueck's giantism seems to mirror the despair of many victims of the "media overexposure", people who have found, thanks to protagonism, the obsessive audience persecution instead of love. This is the other aspect of Lüthi's star attitude and his and Goldin's confessions. A space where the private is public, without empathy. Mueck's giants and Lilliputians are ordinary beings without relationships, without qualities, realer than the reality itself, suspended between life and death, the self perception and the perception of the contest. They are incredible accumulations of imperfections, clues and evidences of a psychic crime scene, a crime scene needing to be patrolled in detail, like in CSI.
Than we have the reports and the documentaries by Jarr and other committed artist, unfortunately often too similar to beautiful reportages or tragedy collections.
A big part of art takes the facts and their transmission as model. Without talking about Baudrillard and Debord, how many times we find exhibitions simply showing the documentation of events, situations, real histories to think on? As if the artistic operation consisted in selection, editing and exposition. As if the brilliant idea were not finding the gravity law, but Newton's apple itself. And so many times you think to have find a revelation, just because you have given more attention to something!
I'LL BE YOUR MIRROR 2: ARTE E MEDIA
Ormai il confine fra arte e media è sempre più labile, non solo in rapporto ai linguaggi utilizzati, ma, soprattutto, in merito al tipo di visione. Da tempo, infatti, sembra che vengano adoperati lo stesso sguardo e gli stessi meccanismi psicologici per strutturare e veicolare i messaggi. Un gioco sottile di vicinanza e distanza, fra empatia ed evento, presentazione e rappresentazione. Prendiamo, ad esempio, i diari fotografici di Nam Goldin, con la loro quotidianità outsider messa in mostra. Scorci, sguardi ravvicinati, primi piani e piani americani di persone reali, descritte nei momenti più intimi, quando l'emotività permea l'atmosfera. L'americana si dichiara testimone "vera". La sua verità risiede nella partecipazione emotiva e nel vissuto che la lega alle persone che ritrae. La loro vita è la sua vita, la macchina fotografica non è che una prosecuzione dei suoi occhi."I'll be your mirror", sostiene la Goldin. L'obiettivo entra nelle case, fotografa intimità e vita vissuta, la realtà della vita, come in un reality show o in un format verità. Seguono le incursioni fra personale e collettivo di vari artisti, fra la testimonianza, l'intercettazione e lo stalking. Vanessa Beecroft trasforma le sue prime intrusioni dal buco della serratura nella messa in scena di una statuaria vulnerabilità decisamente glamour.
"I'll be your mirror", dichiara anche Lüthi. Con lo svizzero l'atteggiamento è diverso: confessionale, teatrale, narcisistico, divistico ("Lüthi piange anche per te", "You are not the only who is lonely"...). E' l'idolo di una comunità legata dai giudizi di gusto e dai consumi. In una società delle immagini e delle icone il divo è colui che riesce a calamitare l'attenzione della gente attorno ad un evento in cui possa riconoscersi. Un effimero collante identitario: la solitudine e il malessere individuali trovano un corrispettivo che le legittimi nella figura della star e nel rituale della confessione pubblica, senza che si presuppongano mosse effettive a livello sociale.
Con l'australiano Ron Mueck, invece, ci troviamo di fronte ad una ipertrofia della vista che assomma in sé le prerogative del tatto per aumentare la percezione dell'umano. Il gigantismo di Mueck sembra rispecchiare la disperazione di tante vittime illustri della cosiddetta "sovraesposizione mediatica", che, invece di trovare grazie al protagonismo l'amore agognato, si scoprono ossessionati e perseguitati dal pubblico. E' l'altra faccia del divismo di Lüthi e delle tendenze confessionali dello svizzero e di Nan Goldin. Uno spazio dove il privato è pubblico senza che vi sia condivisione o partecipazione sentimentale. I suoi giganti, i suoi lillipuziani sono esseri banali, senza qualità e senza legami, "più veri del vero", sempre in bilico fra la vita e la morte, la percezione di sé e dell'ambiente. Sono incredibili accumuli di imperfezioni, tracce e indizi di una scena del crimine mentale, da perlustrare accuratamente, palmo a palmo come in un episodio di CSI.
Seguono i documentari e le riprese di denuncia di Jarr e di molti artisti impegnati, purtroppo troppo spesso simili a reportage ben confezionati, o a collezioni di tragedie.
Buona parte dell'arte si modella sui fatti e sulla loro trasmissione. Senza scomodare Debord e Baudrillard, quante volte nelle mostre troviamo semplicemente la documentazioni di avvenimenti, situazioni, storie reali su cui riflettere? Come se l'operazione artistica consistesse semplicemente nella selezione, nel montaggio e nella presentazione. Come se il colpo di genio non fosse trovare la legge di gravità,ma la mela di Newton. E quante volte ti sembra di trovarti davanti ad una rivelazione solo perché hai prestato più attenzione a qualcosa!
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